Il mio passaggio in India

India

Primavera 2007. Gli spostamenti da un fornitore all’altro mi hanno permesso di vedere, lungo le strade che percorrevo, molti cantieri edili, incluso quello dove stà sorgendo il nuovo stabilimento di produzione, e di constatare che è vero: l’economia indiana sta crescendo molto velocemente.

Ci sono cantieri ovunque e per qualsiasi attività ci sono materiali che si spostano da un lato all’altro del paese. Non ci si fa  subito caso perché le prime cose a colpire sono la povertà, la fatiscenza, l’aria irrespirabile e puzzolente, le donne nei loro sari colorati, le mucche, le capre, i maiali, i cammelli che girovagano per le strade, le persone che giacciono su mucchi di terra o nei cespugli degli sparti traffico come animali randagi; i bimbi – che, appena camminano, ti toccano il pantalone tendendo la manina mentre guardi una bancarella – e i “tuc-tuc”, caratteristici taxi Ape Piaggio, che sfrecciano come pazzi.

Poi, fatta l’abitudine a tutto questo, si cominciano a notare delle cose più complesse sul comportamento della gente. Come, appunto, la costruzione di una casa tra una selva di pali di legno legati con delle corde, che fanno da impalcatura: dove, tra i pali, disposti sia attorno che all’interno della casa, in un intreccio che sostiene il tutto, si arrampicano i muratori senza scarpe. Ovunque c’è un gran disordine e non ci sono le benché minime misure preventive di sicurezza; poi non ci sono né gru, ne sistemi di sollevamento ma solo qualche attrezzo. Non ho visto nemmeno una carriola.

Cantieri si incontrano lungo le trincee scavate per la posa di tubi o per il rifacimento di una strada da asfaltare. La caratteristica di questi luoghi è la moltitudine di persone che “devono” essere fatte lavorare, tra i quali bambini e donne: solo successivamente si capisce che, nelle tende piazzate poco lontano dal cantiere o lungo la trincea, fatte da pali di legno e teloni recuperati dai camion, questa moltitudine ci vive. Si capisce in particolare la sera, quando si scorgono le fiammelle dei fuochi che scaldano qualche cosa da mangiare. Ci si accorge allora che la mano d’opera è costituita da famiglie intere, forse riunite in comunità che seguono il lavoro e i cantieri. Gli uomini fanno la parte più “qualificata” o di fatica ed insegnano il mestiere ai figli, mentre le donne trasportano i materiali: sabbia, terra, ghiaia, ponendoli dentro a secchi che mettono sulla testa.

Ecco, questo è uno scorcio dell’India in via di sviluppo, vista attraverso gli occhi di uno che non capisce una “mazza” di economia. Siamo solo all’inizio e, se l’inizio consiste nell’usare le donne come bestie da soma, chissà come sarà il proseguo: sarà pure una democrazia compiuta, con l’autosufficienza alimentare, ma per me l’India rimane la tecnologia moderna spostata nel medioevo. E basta. Ma, mi chiedo: “E’ anche colpa mia? L’India sarà pure una democrazia compiuta, dove tutti sono rappresentati e dove c’è l’autosufficienza alimentare, ma è anche un luogo dove la redistribuzione della ricchezza non avviene. L’India è una democrazia compiuta a metà.

Sgombriamo il campo da equivoci: il momento culturale ed economico dell’India attuale non può essere paragonato con quello dell’Italia del “boom” economico. Qui persistono la suddivisione in caste, il potere del pensiero religioso Indù che pone l’individuo in uno stato di rassegnazione davanti al proprio destino. Inoltre e paradossalmente, l’insegnamento di Gandhi, che promuovendo la disobbedienza civile di massa ha liberato l’India dagli inglesi, ha reso il proprio popolo ancora più indolente.

Il motivo per il quale mi trovo qua, mi pone, tuttavia, l’interrogativo di essere anch’io responsabile di questa mancata redistribuzione e dello sfruttamento dei poveri indiani. Poi ci penso e dico: no; se la democrazia e la sovranità nazionale hanno un senso, è il governo indiano che funge da moderno mercante di schiavi.

In duemila anni di storia i nostri avi hanno sofferto, lottato e combattuto contro gli oppressori di ogni tipo, per darci quello che abbiamo oggi e di cui beneficiano anche coloro che cercano di opporsi con l’ostruzionismo, i pregiudizi e, talvolta, la violenza. Mi rendo conto che questa riflessione implicherebbe l’allargamento della discussione ma ora voglio solo dire che, come semplice cittadino occidentale – nel bene o nel male – non mi sento complice di qualcosa di brutto. Lo dico perché, a ben pensarci, se non fossimo qui per cercare di tenere in piedi la nostra economia e l’azienda per la quale lavoro, correremmo il rischio di veder finire molte delle cose che ci siamo conquistati e di quello che ci dà da vivere: il lavoro.

Andando a lavorare in questi posti, facciamo un azione involontaria, ma importantissima: l’esportazione, attraverso il nostro modo di lavorare e di comportarci, del concetto di confronto delle idee. Niente altro. Un piccolo seme che ogni lavoratore occidentale – non i manager o i capi di governo – pianterà nelle coscienze di questa gente in modo che, un giorno, germoglieranno da soli. Ora, qualcuno di quelli, che cercano sempre un nemico, mi accuserà di credere nelle favole; può darsi, ma in questo caso mi pare di poter dire che non tutto il male vien per nuocere.

2 risposte a "Il mio passaggio in India"

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  1. Sui danni causati dal capitalismo e dalla globalizzazione ce ne sarebbero troppe da dire…
    Quello che mi colpisce è il tuo ottimismo finale: io invece ho come l’impressione che noi europei non esporteremo democrazia e nemmeno diritti dei lavoratori, ma al contrario finiremo per essere contagiati dal questo “gioco al ribasso” in cui se vuoi lavorare ti devi accontentare di un tozzo di pane, altrimenti c’è sempre qulacuno più povero di te da sfruttare.

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    1. Io intendevo dire che, siamo noi lavoratori che stiamo gomito a gomito con i locali che possiamo trasmettere qualcosa di positivo per una presa di coscienza. Forse sono presuntuoso ma mi piace pensarlo.

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